Attualità

L’Elzeviro | Il nome della Rosa

Damiano Nirchio
La professoressa siciliana Rosa Maria Dell'Aira
La vicenda della docente di italiano e storia di Palermo sospesa dal servizio: l'amministrazione della Giustizia attraverso la spettacolarizzazione della punizione in pubblica piazza inflitta al corpo del colpevole
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C’è un corpo.

È quello di Rosa Maria Dell’Aira, la docente di italiano e storia dell’ITI “Vittorio Emanuele III” di Palermo sospesa per due settimane dal servizio per non aver vigilato sull’attività dei suoi studenti che, in un lavoro di gruppo in classe, hanno paragonato il decreto sicurezza di Matteo Salvini alle leggi razziali fasciste del ’38.

Capelli imbiancati, taglio corto, pratico, senza vezzi.

Volto mite, qualche ruga d’espressione, una catenina d’oro al collo e due perle ai lobi delle orecchie.

Quello esposto al pubblico ludibrio è il corpo di una donna, un’insegnante di Italiano e Storia.

Prima del suo nome – che ho fatto un po’ fatica a reperire perché spesso riportato in maniera parziale, residuale o scorretta – nel mio campo visivo di lettore, telespettatore o internauta campeggiano innanzitutto i suoi occhi bassi, le spalle lievemente incassate e la fronte corrugata in un’ espressione antalgica, come di chi abbia subito un durissimo colpo e ne conviva con le ferite dolenti.

Il corpo prima ancora del nome; in apparente contraddizione con l’aforisma di Bernardo di Cluny, tanto caro ad Umberto Eco, che invece riconosceva dignità d’esistenza e possibilità d’eternità solo al “nome” della Rosa e non ai suoi petali, effimeri e transitori.

Invece è proprio il corpo virtuale di Rosa Maria Dell’Aira il nuovo esclusivo oggetto del martirio mediatico nazionale, nel voluto connubio tra esposizione pubblica e punizione esemplare che diventa spettacolo per le masse che si vuole intimidire, addolcire: indocilire. È quasi un anacronistico ritorno a quello che Foucault chiamava “Lo Splendore dei Supplizi” (Sorvegliare e Punire, 1976) ovvero l’amministrazione della Giustizia attraverso la spettacolarizzazione della punizione in pubblica piazza inflitta al corpo del colpevole: una traduzione in dolore e in umiliazione fisica del danno che l’accusato avrebbe arrecato attraverso il reato alla comunità e quindi, simbolicamente, al corpo del Re (non esistendo ancora il concetto di Stato…).

Roghi, impiccagioni, frustate, fucilazioni in pubblica piazza erano lo strumento del potere per ammonire il popolo e dissuaderlo dal violare leggi o non rispettare il pagamento di gabelle, ambedue dirette emanazioni del sovrano.

Foucault ci dice che il rapporto potere – dissenso – giustizia si è poi evoluto fino al raggiungimento del polo opposto, ovvero allargando a dismisura la grandezza del “pubblico” nella fase di indagine, elaborazione e attribuzione della colpa e invece “privatizzandone” l’espiazione – la punizione -, sottraendola alla sfera pubblica (assunto ancora in parte alla base della modalità detentiva moderna) e anzi nascondendo il corpo del punito fino alla sua sparizione nel nulla come avvenuto nei criminosi abusi delle dittature sudamericane.

Invece nell’epoca postmoderna italiana – quella della grande piazza virtuale, ma di paese, di provincia – si ritorna ad innalzare le pire per le streghe e per gli eretici erigendo a sistema ufficiale lo stesso cyber-bullismo che poi ipocritamente si afferma di voler combattere tra i banchi di scuola. La nuova gogna è infatti “solo” mediatica, virtuale: il Potere aggira l’impossibilità di esporre per davvero il corpo dell’avversario simbolico sconfitto e martoriato, e lo fa attraverso l’innesco di un’accurata campagna di comunicazione di massa che, nonostante le proporzioni elefantiache dei suoi ingranaggi, ha scarsa consistenza ed è dunque avviabile con un soffio di vento. È l’evoluzione della nota tecnica dello “Sbatti il mostro in prima pagina!”, evoluzione che consiste nell’applicazione di quest’ultima tecnica a tutti i gradi di reità e non solo ai reati ritenuti particolarmente gravi o aberranti.

È la strumentalizzazione dello Spettacolo della Colpa, ma in versione 4.0.

Il corpo di Rosa Maria Dell’Aria è infatti in queste ore esposto in ceppi e catene nelle molteplici frammentazioni di quello Splendore dei Supplizi di Foucault che oggi è declinato in pixel e byte nelle migliaia di testate on line, blog, profili personali e pubblici, talk-show e canali you-tube in cui è permesso, e mai censurato, lo sputo virtuale, l’offesa gratuita, il dileggio, l’offesa per l’offesa che si concedeva un tempo al popolo spogliando (spesso letteralmente) le carni del ritenuto colpevole di ogni umanità, dignità civile, anima.

E con questo anacronistico ritorno che il potere cerca – e spesso trova – consolidamento e prospettiva futura di azione.

Ma, fortunatamente, c’è un problema…

I corpi esposti oggi, nell’era virtuale, non hanno “corpo”.

Essi non esistono se non nell’unico vero corpo del colpevole che conserva la sua capacità di esistere e di eccedere rispetto al potere stesso. La professoressa di Palermo e il suo corpo esistono per davvero solo nell’incontro quotidiano e carnale (nel senso di concreto e reale) con i suoi studenti nelle settimane, anni precedenti al supposto reato. L’unico corpo veramente esistente è quello che ogni giorno ha incontrato i corpi degli studenti e si è concretamente interposto come ostacolo vero, realmente consistente, tra loro e l’immobilità, la stasi, l’assenza di analisi, di spirito critico, di dubbio. Ed è un fatto “carnale” nella misura in cui – per dirla con Massimo Recalcati – è “erotismo”, testimonianza vivente di una ricerca del sapere e non la sterile e violenta imposizione di un sapere già dato e stabilito dall’alto.

La colpa contestata alla professoressa è di mancata “sorveglianza” dei suoi studenti.

Traduco in termini più semplici: la colpa di Rosa Maria è di aver amato così tanto il sapere e i suoi ragazzi da lasciarli liberi di incontrarsi.

Lo spiega bene Socrate al giovane allievo Agatone, secondo il racconto che ce ne fa Platone: il sapere non è come il vino che potrebbe facilmente scorrere da una coppa piena ad una vuota. Il sapere non è meccanica della trasmissione, non è imposizione di una nozione e di una verità.

Il Sapere è nostalgia di una pienezza che ancora non si è posseduta; è coscienza della propria coppa vuota. È la coscienza di quel vuoto che, altro non è, che l’immagine riflessa dell’amore per il sapere. Chi ama e coltiva quel vuoto ama il sapere stesso.

L’insegnante, per quanto la sua coppa possa essere piena di vino, può solo testimoniare l’amore per il vuoto.

Così dice Socrate.

E lo fa – sempre secondo quanto ci racconta Platone – col corpo: nonostante l’invito di Agatone a sedersi accanto a lui, nel posto d’onore, dove era prestabilito che sedesse, dove tutti si aspettavano che andasse a sedersi, Socrate mette infine il suo corpo in un angolo defilato, ai margini, nella penombra, facendosi spazio tra altri commensali invitati al Simposio, lì dove nessuno si aspettava che potesse sedersi, in un posto scomodo per sé e per tutti: fuori dallo schema, fuori dal “pieno” già deciso da altri.

Il potere non ama i corpi, quelli veri. Essi sono l’unico ostacolo alla sottrazione arbitraria dei diritti e della libertà, alla cessazione della ricerca del sapere.

I corpi, sottratti alla virtualità, hanno sempre la forza di essere testimoni. La rivoluzione del corpo, della carne, della testimonianza scomoda nel quotidiano, è l’unica strada possibile. Ce lo dice Socrate.

E ci perdonino Eco e Bernardo di Cluny se, per causa di forza maggiore, saremo costretti ad invertire l’ordine di priorità tra i petali e il nome della Rosa.

lunedì 20 Maggio 2019

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