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L’Elzeviro | «Vorrei volare ma sono nato senza piume»

Damiano Nirchio
Anna De Giorgio e Damiano Nirchio sul palco
Quando "i matti" si mettono a fare gli attori
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“Mi dispiace! Stasera io non lo faccio lo spettacolo! Non lo posso fare. E non lo faccio!”.

Un paio di signore con le buste della spesa che passavano davanti al bel teatrino ottocentesco della città interruppero temporaneamente il loro gloglottío per guardare la scena prima di accelerare il passo sforzandosi di avere un aria indifferente.

N., dopo aver urlato, andò a sedersi sui gradini esterni del grazioso politeama in una tarda mattinata di un giorno infrasettimanale di un Maggio come tanti, uno di quei giorni che nei paesi del Sud sembrano ripetersi identici dalla notte dei tempi: nulla sembrava poter inceppare l’abbagliante meccanismo di pietra e luce di quel borgo antico con le sue signore con la spesa, il cane randagio azzoppito, il vecchio seduto a guardia del suo basso, il monello il cui nome risultava tra gli assenti dai banchi di scuola anche quel giorno. Eppure, come da millenni avviene alle latitudini meridiane, quel giorno per gli ospiti della Comunità, per i suoi operatori e per me sarebbe stato straordinario grazie al Teatro.

Dopo due anni di lavoro eravamo pronti ad incontrare il pubblico. Quella sera ci sarebbero stati gli amici, i genitori per chi ancora li aveva, i fratelli, una ex-moglie, persino qualche figlio, l’assessore alla solidarietà sociale, forse il sindaco in persona, il presidente della cooperativa e certamente anche qualche semplice avventore di passaggio, curioso di vedere i “matti” che si mettevano a fare gli attori. Non sarebbe rimasto deluso: i “matti” erano diventati bravissimi, da invitare nelle Accademie per spiegare ai giovani allievi cosa sono precisamente la presenza scenica, l’urgenza di dire, il timoroso rispetto per il pubblico.

Avevo, banalmente, provato a lavorare con loro sul Don Chisciotte, ma, dopo pochi racconti, era risultato a tutti evidente che le biografie colme di inimmaginabili peripezie di quel gruppo di uomini e donne era di gran lunga più interessante dei mulini a vento della Mancha (e che Cervantes porti un po’ di pazienza!). Ne era venuta fuori una “fiaba” atroce e bellissima come tutte le fiabe che si facciano ancora rispettare e un piccolo spettacolo di fine-laboratorio veramente riuscito, tutto frutto di storie vere e racconti di vita vissuta.

Eravamo alla prova generale del mattino. Mancavano poche ore, un panino e un caffè (ma solo per chi era autorizzato a prenderlo…).

Rincorsi N. fuori dal teatro e, in silenzio, mi andai a sedere sui gradini accanto a lui. Lasciammo passare i minuti senza bisogno di dire niente: sin da bambino ho passato molto tempo con uomini e donne come lui (espressione comunque infelice poiché mai ho incontrato nella vita qualcuno “come” qualcun altro) condividendo la vita di comunità semplicemente perché accompagnavo mia madre che aveva cominciato a lavorarci di giorno e di notte già pochissimi anni dopo le felici intuizioni di Franco Basaglia. Sapevo, insomma, che spesso si deve solo fare silenzio. E stare.

Fu lui a ricominciare: “ Non lo faccio…”

“Non è un problema…” gli rispondo paziente “Se recitare davanti a tutti ti fa stare così in ansia, sono d’accordo con te. Meglio lasciar perdere. Recitare dovrebbe essere sempre una cosa bella. E non far soffrire nessuno. Siamo ancora in tempo per avvisare tutti.”

“Allora avvisali…” Guardava in basso, a terra tra i suoi piedi, con la testa bionda tra le ginocchia.

“Li avviso tra un po’… Intanto però potresti dirmi soltanto… “perché”…”

“Perché cosa…?”

“Perché hai cambiato idea proprio adesso. Sono mesi che mi dicevi che non vedevi l’ora che arrivasse questo giorno!”

Rimase zitto e continuò a non guardarmi. Il monello tirò male un calcio al pallone che rotolò fino a noi. Ma anche quello lo lasciò del tutto indifferente. Rispettai il silenzio rotto improvvisamente dalle campane che suonavano le dodici e mezza; il libraio di fronte al teatro chiuse la porta della sua coraggiosa attività e andò via. Ero intento a seguirlo con lo sguardo per vederlo sparire dietro il primo angolo che svoltava giù nella piazza quando N. disse

“Perché sono triste…”

Aveva alzato gli occhi e guardava in cielo: un’unica lastra cobalto tra le linee orizzontali di calcare e calce abitata solo dalle nere traiettorie delle rondini.

“E perché sei triste..?” azzardai.

Rincorse le rondini con lo sguardo. “Io…? Perché volevo volare! Ma sono nato senza piume…”

Non è una regola. Ma spesso la malattia mentale, insieme a tanto dolore, concede in dono la grazia del dire la cosa esatta nel momento più esatto.

Io invece, mai come in quel momento, sentii che ero molto lontano dalla concessione di quel dono. Non seppi che dire per due lunghi minuti. Tanta poetica esattezza mi aveva investito e sconvolto come accade sempre negli incontri ravvicinati con la vita. Sapevo solo che era esattamente come mi sentivo io e come mi ero sentito ogni giorno della mia esistenza fino a quel momento. Alla fine presi un lungo respiro per dirglielo: “Anche per me è così. Da sempre.”

“Veramente…?” Finalmente mi guardò, stupito, incuriosito dalla mia improvvisa e fragile nudità.

“Certo… E secondo me un po’ tutti si sentono così. Hai visto le due signore che son passate con la spesa? E il vecchietto? E il padrone della libreria? E anche il ragazzo col pallone? Tutti hanno un sogno. Ma ogni giorno devono ricordarsi che la strada è difficile. E alcuni giorni persino impossibile…”

“Tutti…?”

“Sì… Secondo me tutti. Anche quelli che dovrebbero venire stasera a vedere il nostro spettacolo. Tutti, esattamente come me e come te. La felicità è sempre un palazzo tutto da costruire. E c’è sempre tanto da lavorare.”

“Quindi siamo tutti… operai?”

Sorrisi e pensai che nessuno avrebbe potuto spiegare meglio il Socialismo con sole quattro parole.

“Sì…”

“E allora…” si alzò improvvisamente in piedi “Stasera lo devo fare lo spettacolo! Lo devo fare per forza! Per tutti!”

E rientrò in teatro.

Quella sera lo spettacolo fu bellissimo. N. fu bellissimo. Tutto il pubblico fu bellissimo.

L’anno dopo quell’umile lavoro fece anche una piccola tournèe al nord: bellissima perché tra quegli strani attori c’era anche chi nella propria vita aveva conosciuto solo il proprio piccolo paese e quello poco lontano dove c’era il manicomio.

L’anno dopo ancora nasceva un altro spettacolo intitolato “Senza Piume“. Poi una piccola folle compagnia teatrale con lo stesso nome. La mia. E quella di Anna, mia moglie.

Da quel giorno sono passati già dieci anni.

Bellissimi.

lunedì 11 Marzo 2019

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Umberto Depalma umbero.depalma@tin.it
Umberto Depalma umbero.depalma@tin.it
5 anni fa

È bellissimo. Quasi autobiografico per ciascuno di noi: in coda per spiccare il nostro volo quotidiano.

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