Attualità

L’Elzeviro | Lucignolo sta bene

Damiano Nirchio
Pinocchio
«Mia figlia mi chiede sempre: papà, che fine fa Lucignolo?»
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“Non sei un po’ troppo cresciuto per leggere Pinocchio?”

Sono in una sala d’aspetto di uno studio radiologico: luce al neon, un intenso odore di disinfettante per pavimenti, sala piena di gente mediamente più grande di me di almeno vent’anni. Ho effettivamente aperto sulle gambe il libro di Collodi, esattamente la stessa edizione che mi accompagna dalla scuola elementare e che ogni tanto rileggo per lavoro e diletto. Questa volta per un progetto con i ragazzi in una scuola. L’osservazione dello sconosciuto ficcanaso dovrebbe, a buon diritto, infastidirmi; tuttavia mi armo di pazienza e di un generico bonario sorriso per affrontare il socievole pensionato annoiato dall’attesa che certamente avrà voglia di ingannare il tempo scegliendo immancabilmente il sottoscritto. E invece… mi ritrovo davanti un giovane uomo, forse con qualche anno meno di me, faccia pulita, occhi scuri che fissano ancora il libro e le sue belle illustrazioni, capelli riccissimi tenuti a bada a stento dalla gelatina, qualche primo filo grigio sulle tempie e scarpe e pantaloni da lavoro costellati di macchie di vernici: molto bianco avorio, un verde persiana, un paio di grigi inferriata e un po’ d’azzurro sulle ginocchia. Mi volto a guardarlo. È in piedi alle mie spalle. Non lo avevo notato entrando. Continua a tenere gli occhi fissi sul libro: “Ogni tanto lo leggo a mia figlia.” dice “Ma il nostro è più piccolo del tuo.”

“Sarà un’edizione ridotta.” rispondo ”Questo invece è il testo completo. Anche io ho una figlia… Ma è ancora piccola per Pinocchio. Ha quasi quindici mesi.”

“La mia ha cinque anni. La vedo solo il sabato e la domenica quando sta da me. Ora rimane pure la notte. Prima la madre, la mia ex, non voleva. Ora invece ho una bella casetta in affitto. Proprio qui vicino, dietro la parrocchia di Don Carmine, in via Bixio.”

Faccio spallucce. “Mi dispiace, ma non abito qui. Sono di…”

“E tu che devi fare oggi qua? Un controllo? O è la prima volta?” Non mi lascia finire e mi fa la sua domanda a bruciapelo. È la prima volta che ci vado: in realtà sono lì per una fesseria e perché voglio onorare la scrupolosità del mio medico curante. Un tempo sarei potuto andare a trovare un caro amico medico che mi avrebbe accolto in ambulatorio con un sorriso rassicurante e avrebbe ascoltato il mio problema rinunciando magari alla sua pausa pranzo. Ma non è per questa fesseria che quell’amico oggi mi manca. Resto in silenzio mentre il giovane mi guarda placido. In genere ci metto sempre un po’ di tempo prima di raccontarmi, soprattutto a qualcuno che ho appena conosciuto. Eppure si vede lontano un miglio che quel ragazzo non è un invadente impiccione, ma ha più bisogno di essere ascoltato che di ascoltare; basterà poco della mia storia per permettergli di raccontare la sua e allora concedo a me e a lui una piccola eccezione. “Devo fare una ecografia. Ho avuto qualche piccolo fastidio – che mi è già passato – ma ho seguito lo stesso il consiglio del medico. È la prima volta che vengo qua…”

“Io devo fare una TAC. Ma non è la prima volta! Sai quante? Io sto sempre qua, si può dire. Sai quanti soldi ho lasciato qua quest’anno? Mò che muoio devono mettere la foto mia qua dentro!” E mentre ne parla sorride di un sorriso leggero, come se ci fossimo incontrati da un buon salumiere e non in uno studio medico. Lo guardo dalla testa ai piedi, istintivamente, come cercando un perché ai suoi controlli medici: il corpo asciutto e scattante di chi fa da sempre un lavoro manuale sembra invece il ritratto della salute. Decido di non chiedere. Devio l’argomento per discrezione e la butto sul generico. “Eh già… Questi esami costano sempre più. Se poi uno ne deve fare tanti diventa parecchio pesante da sostenere…”

“Infatti! Io faccio l’imbianchino. La mattina lavoro per una ditta, ma il pomeriggio vado ad aiutare un amico carrozziere, oppure faccio dei lavoretti miei. Prima lavoravo pure la domenica. Poi l’avvocato mi ha detto che se volevo vedere la bambina mi dovevo dare una regolata. E allora lavoro solo fino a sabato mattina. Però poi succedono queste cose… E uno come fa? È normale che poi uno va pure di notte a lavorare se può!” Si rigira il numero di chiamata tra le mani mentre io annuisco, poi mi fa “Tu che lavoro fai?”

Come sempre mi capita, mi prendo un paio di secondi per decidere se far partire la solita complessa spiegazione che lascia sempre quasi tutti un po’ confusi, oppure confezionare una risposta parziale a misura di interlocutore. Opto per la seconda opzione: una piccola parte di verità.

“Lavoro con i ragazzi a scuola. Pinocchio mi serve per un progetto con loro.”

“Belle queste cose! Ai tempi nostri mica si facevano nelle scuole! Per questo faccio l’imbianchino… Non ci volevo andare mai a scuola. Io la mattina, se la scuola era a destra, me ne andavo a sinistra. Sai che facevo? Prendevo il treno – senza biglietto – e me ne andavo a Bari. Come mi piaceva! Pure mò, certe volte, se la giornata è bella, ci vado con mia figlia. Oppure ci andavo quando al Tribunale tenevo le udienze, vabbè… Insomma: a quell’epoca mio padre, vide che non tenevo tanta voglia, e mi mandò da un amico suo a imparare il mestiere. Da allora… Però mi piace, eh! Non mi pento per niente, anzi! Io lavoro dalla mattina alla sera e se non mi piaceva mica lo facevo. E che io a scuola… non riuscivo proprio a stare. Io ero come all’amico di Pinocchio, quello monello, come si chiama…?”

“Lucignolo…?” Gli sorrido. Mi sorride. “Sì… Bravo. Lucignolo… Così ero. Pure a mia figlia glielo dico che papà suo era come quel bambino. Un po’ bambino e un po’ asinello…”

Chiamano il suo numero. “Oh! Tocca a me. Vabbè, ci salutiamo ora che esco…”

Ci metto un po’ prima di ricominciare a leggere il mio libro. Non so perché, ma ho voglia di chiamare casa. “Ci siamo sentiti mezz’ora fa… Tutto bene. La bimba dorme. Quando è il tuo turno? C’è tanta gente?” dice mia moglie all’altro capo del telefono “Sì” rispondo “Ce n’è davvero tanta…”

Rientro in sala d’aspetto. Il posto è stato occupato da una signora con una grande borsa di tela piena di carte e documenti. Rimango in piedi proprio vicino alla porta dell’ambulatorio che si riapre dopo una decina di minuti restituendomi il mio imbianchino. Ha già il suo referto tra le mani.

Vorrei, ma non oso chiedere.

Lui invece mi viene a stringere la mano. Sempre sorridente. Azzardo un “Com’è andata?”

Scuote la testa. “Insomma…”

Vorrei dire qualcosa, ma non so cosa. Allora è lui che mi dice indicando il libro “Quindi quella è la storia intera?”

“Sì.”

“Mia figlia mi chiede sempre – Papà, che fine fa Lucignolo? – Effettivamente non si sa… No? Rimane asino? Diventa pure lui bambino? Boh! Lì lo scrivono?”

Dovrei dirgli che Lucignolo, nell’ultimo capitolo, muore. Muore di fatica e stenti, dopo una vita a rompersi la schiena, tra le braccia dell’amico Pinocchio; che non torna più bambino, ma rimane asinello fino alla fine. Così dovrei dire, per amore della precisione, a quel giovane uomo con i pantaloni e le scarpe da lavoro ancora addosso.

E invece dico sorridendo “Tranquillo… Lucignolo sta bene. Lavora, si è sposato ed ha una bimba. Proprio come me e te!”

Mi guarda un attimo pensieroso e poi “Guarda che ti è cresciuto il naso!” Ride.

Forse mi ha scoperto. Forse no.

“Ciao!”

“Ciao.”

Che Collodi, da lassù, mi perdoni!

lunedì 18 Febbraio 2019

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Luigi Nisio
Luigi Nisio
5 anni fa

Grazie, Damiano. Mi hai fatto commuovere raccontando questa storia…

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