L'Elzeviro

Onorevole Santanchè, dove sono Gennaro e Vito?

Damiano Nirchio
Damiano Nirchio
Se la Politica ha tanta voglia di occuparsi della scuola e dei più piccoli potrebbe cominciare col rispondere a questo mio quesito
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Nelle ultime settimane, complice una trasmissione in onda su RaiTre, il telespettatore o il casuale internauta dei social network ha assistito al ritorno tra i banchi delle scuole elementari di alcuni big della politica nazionale. Non in qualità di alunni, come qualche maligno auspicherebbe, bensì come maestri. Come previsto dal format tutti ricevono domande dai bambini e provano a dare risposte improvvisandosi pedagoghi scafati con risultati spesso divertenti. Altre volte semplicemente infelici. Spicca tra questi ultimi la lezioncina dell’Onorevole Santanchè che ha sentito l’urgenza e il dovere di ribadire anche ai più piccoli il concetto che al mondo “comanda chi paga” e che “il denaro è l’unico vero strumento di libertà. Solo il denaro rende liberi.”

So di per certo che una buona comunicazione verbale tra due interlocutori può dirsi tale quando un’informazione fornita dall’uno corrisponde ad un bisogno o una domanda dell’altro. Sforzandomi di sorvolare sulla “giustezza” in sé dell’affermazione dell’Onorevole, ho provato a concentrarmi invece sulla sua congruità. Avevano quei bambini dentro di sé una domanda che potesse richiedere tale riscontro? E se no, quali sono le “domande” di un bambino a cui un Onorevole può (o deve) dare una risposta?

Ho provato a ripensare a quelle che avevo io a quell’età e mi è tornata in mente questa storia…

Ho frequentato la prima elementare in un edificio severo e bellissimo costruito all’inizio del ventennio fascista e sul cui frontone domina ancora oggi la scritta Scuole Elementari Anno 1928. La maestra che mi accolse in classe il primo giorno, e per quelli a seguire, condivideva con quell’edificio anno di nascita e severità con relativo campionario di antichi strumenti e metodologie per l’educazione e la correzione dei fanciulli.

In classe, seduti in prima fila e praticamente attaccati alla cattedra, c’erano due bambini che attirarono da subito la mia attenzione: erano “dell’Istituto” – ché con questa espressione tutti indicavano i bambini ospiti di un grandissimo convitto per minori lungamente attivo in paese – Qualche macchia sui grembiuli, capelli tagliati a zero per evitare o sanare la pediculosi, sorrisi perenni e irrequieti stampati sui visi sempre segnati da qualche graffietto, bocche senza qualche dentino e molte carie non curate “Tanto cadranno anche quelli…”. La maestra ci disse che erano appena arrivati da Napoli e che erano dei “bocciati” e quindi un po’ più grandi di noi. Si chiamavano Vito, quello più alto e biondino, e l’altro – lo ricordo bene – Gennaro Esposito. Uso il suo nome vero visto che la fantasia (poca, per la verità) l’avevano già usata a suo tempo le suore napoletane a cui era stato probabilmente affidato al momento della nascita. Gennaro e Vito erano due bambini che avevano fatto della richiesta d’attenzione con tutti i mezzi a disposizione la propria unica e ovvia missione nella loro ancor breve, ma già avventurosa, esistenza. Le conseguenze che tali legittime richieste avevano sul resto della classe e soprattutto sulla severa maestra sono immaginabili…

Un bel giorno, dopo qualche mese, la maestra propose un’attività alla scolaresca: divise in due la lavagna con una bella riga verticale e chiese a tutti noi di alzarsi uno alla volta e di segnare da una parte una emme col gessetto blu, se maschietti, o dall’altra una effe col gessetto rosso, se femminucce; alla fine avremmo potuto contare quanti alunni e alunne componevano il totale dei componenti di quella classe, assenti esclusi.

Tutti si alzarono e svolsero senza troppe difficoltà il compito che era stato dato. Finché, alla fine, arrivò il turno dei “bambini dell’Istituto”: Gennaro si avvicinò alla lavagna ed esitò a lungo, pensieroso come se stesse compitando un complesso calcolo matematico.

“Gennaro! Forza! Stiamo aspettando tutti te! Come al solito…” disse dopo un po’ la maestra per incoraggiarlo, a suo modo. Ma Gennaro sembrava misteriosamente rapito da quella ordinata e variopinta selezione di emme e di effe che ormai riempiva tutta la lavagna. “Allora! Gennaro! Non ci vuole molto! Usa il cervello una volta tanto… E sbrigati!” Tutti i compagni mormoravano, qualcuno provava a suggerire la lettera da scegliere e il colore da adoperare, molti ridacchiavano; il tempo scorreva e l’imbarazzo – della maestra – cresceva mutandosi in malcelato nervosismo. “Gennaro! Gennaro! Devi sempre farti riconoscere! Stai facendo la figura del cretino. Vuoi scrivere la lettera che devi scrivere così te ne vai finalmente a posto? Allora? Ti muovi?!”

Silenzio. Occhi fissi sulla lavagna come davanti alla vastità dell’oceano sconfinato. E ancora silenzio.

“Gennaro! Insomma! Sbrigati! È mai possibile? Nemmeno una cosa così facile riesci a fare?” urlò la maestra “È possibile che tu non sappia nemmeno se sei maschio o femmina? Ora conto fino a tre e poi te ne torni comunque a posto dopo aver fatto la figura dello scemo. Uno… due…”

E fu allora che in un impeto di orgoglio, col coraggio di chi è ferito nella battaglia e sa che forse non ha più molto da perdere, Gennaro impugnò un gessetto bianco e… tracciò una grande A al centro della lavagna; poi si voltò finalmente verso di noi, soprattutto verso la maestra, ed emise, con le labbra aperte sulle povere gengive orfane di denti, una delle risate più genuine e al contempo luciferine a cui io abbia mai assistito. La potenza eversiva e inattesa di quella risata ci contagiò tutti. Tranne la maestra che con le mascelle serrate dalla stizza e dall’imbarazzo prese Gennaro per un orecchio e lo spedì dal Direttore insieme al povero Vito il quale, a ripensarci ora, non aveva ancora fatto niente.

Qualche giorno dopo ne combinarono un’altra che mi riguardò da vicino. Erano le dieci e mezza e la maestra sentenziò che potevamo mangiare le nostre merende. Ogni giorno portavo a scuola la stessa merenda che mi preparava mia madre: era un cazzottino – che per i nati a Nord dell’Ofanto e ad Ovest del Basento è un piccolo panino di farina bianca con un taglio nel mezzo – con una fetta di prosciutto cotto ed un pomodoro sott’olio. Ricevuta l’autorizzazione lo cercai come al solito nella cartella, ma… niente. Eppure ero certo che mia madre l’avesse messo lì. Chiesi ai compagni di banco se qualcuno lo avesse trovato finché sottoposi ingenuamente il problema alla maestra.

La maestra non ebbe dubbi. “Gennaro! Vito! Sapete niente voi? Restituite subito quello che avete preso…!” E allora Gennaro, con la testa bassa, infilò la mano nella tasca del grembiule e ne tirò fuori solo la carta stagnola tutta appallottolata.

E finirono di nuovo dal Direttore.

Tornai a casa e raccontai tutto ai miei genitori. Mia madre non disse nulla. Ricordo solo che il mattino dopo nella cartella i panini erano diventati tre.

Arrivai in classe ma i banchi dei due bambini dell’Istituto erano vuoti. La maestra disse che erano stati “trasferiti” e che non sarebbero venuti più in classe con noi. L’anno continuò e terminò senza di loro. Non li rividi mai più.

Una bella mattina di giugno esposero gli elenchi in corridoio e mia madre e mio padre poterono leggere per la prima volta la parola “promosso” accanto al nome del loro figliuolo.

Gennaro e Vito risultarono ancora una volta “bocciati”.

Da quel giorno, da quando ero solo un bambino tra i banchi di scuola, mi porto dietro un paio di domande. La prima riguarda il senso di quella grande A al centro della lavagna, ma con gli anni credo di essere vicino ad una risposta. La seconda domanda riguarda invece i destini di quei due bambini. Ecco! Per esempio: se la Politica ha tanta voglia di occuparsi della scuola e dei più piccoli potrebbe cominciare col rispondere a questo mio quesito. Piuttosto che ricordarci che il mondo si divide in persone che di panini se ne ritrovano tre, nessuno o trecentomila, che tendenzialmente sono questi ultimi a comandare su tutti gli altri – cosa che abbiamo capito subito tutti dalla prima elementare-, perché non prova a spiegarci che fine hanno fatto Gennaro e Vito?

lunedì 11 Febbraio 2019

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Francesco Stallone
Francesco Stallone
5 anni fa

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