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I falò di Sant’Antonio nei ricordi della famiglia Barbuto

Nicola Palmiotto
Il falò della famiglia Barbuto
Com'era un tempo la festa e qual è il significato per i giovinazzesi
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 I giovinazzesi amano i falò di Sant’Antonio. Perché in fondo è la celebrazione di una memoria collettiva, di quando eravamo una comunità di contadini e vivevamo di pari passo con i ritmi della natura in una società in cui la famiglia era la base di ogni cosa.

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Come qualsiasi tradizione popolare, le radici affondano in un mix di riti e leggende. Secondo alcuni infatti la festa potrebbe essere collegata alla fine della tirannia di Giulio Antonio Orsini, principe di Taranto, che con le sue scorrerie durante il XV secolo aveva distrutto le campagne giovinazzesi, causando fame e disperazione. Ma il fuoco è anche simbolo di purificazione e propiziatore di benessere e prosperità. Infatti le ceneri dei fuochi erano usate per concimare i terreni. La festa inoltre segna l’inizio del carnevale, da cui il motto “Sant’Antonio maschere e suoni”.

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La tradizione

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Una tradizione che si perde nella notte dei tempi e che la famiglia di Vincenzo e Angela Barbuto, continua a perpetuare, accendendo ogni anno il proprio falò di fronte alla casa di piazza Duomo 27.

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«Io i falò di Sant’Antonio me li ricordo da sempre – dice la 90enne signora Angela Barbuto -. Si facevano di domenica perché negli altri giorni della settimana si andava al lavoro. Ricordo che in piazza Duomo c’erano cinque fuochi, ma ogni famiglia del paese vecchio aveva il proprio. Nel resto della città ce ne erano pochi. Nel giorno del santo, il 17 gennaio, si diceva la messa nella chiesa di Costantinopoli e si sparavano fuochi di artificio, perché il santo era protettore degli artificieri». Nel falò della famiglia Barbuto, che commerciava in legna, finivano le parti inferiori del tronco di ulivo, quelle più difficili da tagliare: «Mio padre – continua Angela- usava i pezzi “accpnèt”. Li conservava tutto l’anno e il giorno di Sant’Antonio li bruciava, facendo un grande falò»

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«Allora la stragrande maggioranza dei giovinazzesi – aggiunge Maria Eplite, figlia della signora Angela- risiedevano nel centro storico. In piazza Duomo abitavano i proprietari terrieri di Giovinazzo. Loro la legna ce l’avevano e accendere un falò era un modo per dimostrare, tra virgolette, la potenza della loro famiglia. Più il fuoco era grande più quella famiglia possedeva legna. Il proprietario accendeva il fuoco e ogni famiglia metteva a cuocere la propria pignata. Il fuoco quindi era comunitario, tutti erano lì intorno. Anche perché faceva freddo e non tutti avevano la possibilità di comprare legna per riscaldarsi. Stare intorno al fuoco voleva dire che almeno quella sera il caldo c’era. Una volta cotta ognuno prendeva la propria pignata e la mangiava in casa con la famiglia».

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Date queste premesse è naturale che Maria e suo marito Umberto Depalma, non potessero esimersi dal continuare, insieme ai loro parenti, la tradizione. «Abbiamo continuato la tradizione – spiega Umberto-. La famiglia di mia moglie aveva una certa dimestichezza con la legna, e dopo il matrimonio è stato naturale proseguirla». Ogni anno continuano a preparare il falò in piazza Duomo, procurandosi la legna, quella della potatura dell’anno precedente e organizzando il necessario per l’accensione.

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La festa al giorno d'oggi

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Ovviamente con il passare degli anni la tradizione è mutata. Un cambiamento però che è inevitabile come lo scorrere del tempo stesso. «Oggi la festa è di proporzioni maggiori, più commerciali – aggiunge Umberto-. Allora il commercio non aveva senso. Lo stacco è proprio questo: prima chi accendeva il fuoco raccoglieva i famigliari, e questi ultimi sentivano il piacere e il dovere morale di presenziare al falò». «Oggi non c’è più il senso della famiglia, si è perso il senso di falò appartenente alla famiglia e ad un territorio», conferma Maria.

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Le ricette e i cibi della tradizione

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Il cibo e le bevande sono parte integrante di una festa, del resto senza di esse che festa sarebbe? Sant’Antonio a Giovinazzo significa fave, cotte nella pignata, olive in acqua, braciole di cavallo, “frsìdd” e vino. «Le braciole di cavallo ci sono sempre state, ma allora le mangiava chi aveva più possibilità – ricorda la signora Angela-. Ma il vino era ancora più importante. Si mangiavano anche i ceci cotti sotto la sabbia, arance e mandarini».

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Le olive in acqua, le pasole, sono in genere quelle “nuove”, che proprio in questo periodo dell’anno possono essere mangiate dopo il periodo di salamoia. Le fave, “l’caprièt”, vanno invece preparate con un rituale che deve essere rispettato: «Le fave messe a bagno intere necessariamente il venerdì mattina e poi cotte nella pignata», conferma Maria. Intorno ai falò non possono mancare “l’frsìdd”, che si preparano con acqua, farina, olio, zucchero e pepe, una sorta di biscotto non troppo dolce.

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Sgranocchiarne qualcuno, nel piatto insieme alle fave e alle olive, una sera di gennaio di fronte al fuoco significa riallacciare un rapporto con gli avi. Significa in fondo sentirsi giovinazzesi.

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venerdì 20 Gennaio 2017

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